La fortezza: virtù quanto mai necessaria oggi
La terza virtù cardinale è detta andreìa in greco, fortitudo in latino, fortezza in italiano. Il suo opposto è la debolezza nel senso di incostanza, impazienza, incapacità di mantenere e di sopportare, evanescenza.
La fortezza corrisponde a ciò che il buddismo chiama virya (…) e che costituisce il sesto stadio dell’ottuplice sentiero detto “retto sforzo”. É molto presente anche nella tradizione musulmana dove viene chiamata jihad, termine tristemente noto come “guerra santa” ma che primariamente significa “sforzo” o “lotta interiore” e che di per sé rimanda al perfezionamento della fede e dell’obbedienza personali. Secondo la dottrina cattolica “la fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale”.
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Il che ci fa comprendere che esistono due accezioni della forza o fortezza: una accezione passiva, a cui si possono ascrivere la costanza, la fermezza, la capacità di sopportazione o pazienza è tutto ciò che aiuta a “moderare l’audacia”; e una accezione attiva altrettanto importante, a cui si possono ascrivere il coraggio, l’ardire, la grandezza d’animo e tutto ciò che aiuta a moderare la “timiditate”. A mio avviso il nome più proprio della fortezza in senso passivo è resistenza e in senso attivo è coraggio. In entrambi i casi la posta in gioco è la forza interiore, detta anche forza d’animo, forza morale, forza del carattere.
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Cicerone assegna alla fortezza il duplice compito di disprezzare la morte e il dolore, e noi dobbiamo chiederci che cosa significhi tale disprezzo. Esiste forse qualcuno che si possa permettere responsabilmente di disprezzare la morte e il dolore, nel senso di non curarsene affatto, né per sé né per gli altri? Io penso di no, e ritengo che chi sostiene il contrario, (…), sia, come minimo, un irresponsabile.
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Anche per noi umani in quanto esseri naturali l’istinto di sopravvivenza è la forza più grande, che ognuno esercita spontaneamente del tutto a prescindere dal pensiero razionale, il che mostra nel modo più chiaro che la nostra più intima essenza in quanto esseri naturali è il nostro desiderio di vita. Vogliamo vivere, perseverare nel nostro essere. Siccome però tale perseverare nell’essere è possibile solo grazie all’uso della forza, ne consegue che l’uso della forza come atto essenziale per proteggere la vita è una virtù. anzi, a mio avviso, la fortezza è la prima virtù dell’organismo vivente, senza la quale le altre non sarebbero possibili.
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Sostengo quindi che il nostro primo compito di esseri viventi è nutrire e custodire la vita e in questo concordo con il taoismo, secondo il quale noi dobbiamo anzitutto “preservare con cura l’energia vitale e badare a non perderla”.
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Nutrire la vita è quindi il nostro primo compito, ma non essendo possibile farlo senza esercitare la forza, tale esercizio della forza che serve la vita è una virtù e il suo nome è fortezza.
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Il fatto è che la paura del dolore e della morte può essere tale da risultare raggelante e da condurre chi la subisce non solo a non esistere nel senso forte da me usato, ma neppure a vivere pienamente, passando l’intero arco temporale della vita come con il fiato eternamente sospeso.
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Quindi non si tratta tanto di disprezzare il dolore la morte in se stessi, quanto la paura che ne abbiamo, cercando di essere più forti di tale paura esercitando, per l’appunto, la virtù della fortezza o del coraggio.
La terza virtù appare dunque come la manifestazione della forza da parte degli esseri umani, grazie alla quale essi nutrono la vita e sconfiggono la paura di esistere e prima ancora anche solo di vivere, e per questo essa merita a mio avviso di essere considerata come la prima per il vivere umano, non nel senso di più importante o più meritevole, ma nel senso di più basilare (…).
Vito Mancuso
La forza di essere migliori
Garzanti